Termine inglese usato per indicare l’ambito di ricerca rigorosamente delimitato e qualificato con le caratteristiche di attendibilità scientifica nelle sue modalità di osservazione, spiegazione e comprensione. I contesti nei quali il setting è inteso come contenitore di ricerca sono la psicologia sperimentale, nella quale le norme di impiego di un test devono essere rigidamente stabilite affinché la rilevazione abbia un’attendibilità scientifica, e la psicoanalisi. Per quest’ultima, il setting è di fondamentale importanza e sta a indicare la scoperta di un preciso strumento a garanzia dell’attività terapeutica, costituito da regole che scandiscono funzioni e ruoli tali da permettere l’analisi del significato affettivo del vissuto del paziente, all’interno di una particolarissima situazione, che va al di là di qualsiasi relazione quotidiana. È l’insieme degli aspetti peculiari dell’attività analitica: il contratto terapeutico in ogni sua parte, la posizione che deve essere tenuta dal soggetto e quella del terapeuta fuori dal campo visivo dell’analizzato, le regole concernenti il tipo di comunicazione, ecc. Di Chiara (1986) lo definisce l’assetto relazionale o mentale che il terapeuta deve adottare e conservare durante il percorso terapeutico, per poter inferire correttamente dalla condotta e dalle parole del paziente i significati inconsci che lo animano, non falsando inoltre il regime del transfert e delle proiezioni, difficilmente interpretabili in una situazione non protetta dal setting. Esso è quindi uno stato della mente, un modo di essere nel rapporto con il paziente, che rappresenta lo specchio della relazione analitica, capace di indagare dell’interiorità del rapporto psicoanalitico.Nella teoria bioniana (1967), il setting è un contenitore (vedi
Contenimento), rappresentato sia dall’analista sia dalla situazione analitica, che capisce, elabora e contiene i vissuti d’angoscia dell’analizzato, finché quest’ultimo non svilupperà autonomamente tale funzione.

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